Estratto dal libro " Ricadute narrative dalle contingenze esistenziali" di Antonio Pagliara


L’HAMMAM DI JESSE



Mangiavo un karışık tos accompagnato dal solito tè in uno di questi bar popolari che affollano le strade di Istanbul. Meditavo morso dopo morso su una rilassante, immediata pennichella pomeridiana che potesse restituirmi il sapore del cazzeggio. La discussione tra gli avventori intorno era animata e riguardava una notizia televisiva che avevo decifrato solo in parte... sanat galerisi... Un vecchio diceva qualcosa riguardo la vicinanza di una moschea e musica ad alto volume. Sullo schermo immagini di vetri rotti e scontri. Il vecchio ripeteva animatamente anche la parola “italian” e, non comprendendo il discorso, l’apprensione stava quasi per scrollarmi di dosso il mio sonno atavico. C’era stato un assalto a una galleria d’arte a Tophane, un quartiere tradizionalista di Istanbul. Ripensai a Jesse e al suo Hammam. Che giorni indimenticabili! Che strana, inquietante sorpresa. Uno sbadiglio coprì subito ogni pretesa di attenzione e mi lasciai decidere dalla sonnolenza per un esaustivo pisolino.

Tornato a casa trovai come sempre Yakup, il mio padrone di casa, davanti al computer con il consueto sorriso affabile. Ne haber? Non feci in tempo a fare il giro del tavolo che scoprìi il suo volto pesantemente violato da ecchimosi. Hai saputo di quello che è successo ieri notte? Non saprei, ho sentito qualcosa di... Le parole mi si sciolsero sulla lingua quando vidi il suo occhio tumefatto.

Yakup era sconvolto. Ma non per il dolore. Non per l’occhio violato. Non per il volto ammaccato. Difficile spiegare. Era qualcosa che non era riuscito a chiarire a se stesso e che forse ebbe modo di comprendere mentre mi raccontava le vicende. Le quali in verità si riducevano a ben poco. Mentre passeggiava per l’esposizione d’arte nel quartiere di Tophane tra artisti sofisticati, studenti che bevevano birra, turisti curiosi, donne con abiti da sera e cocktail in mano, all’improvviso si era ritrovato per terra e ricoperto di pugni calci e schiaffi. Nessuna parola, nessuna spiegazione. E con lui decide e decine di altri presenti. Circa una cinquantina di giovani “conservatori” si erano scagliati contro i partecipanti all’esposizione. Perché? Qual era il problema? Quali le ragioni? Quali i motivi profondi? Le risposte erano molte, nessuna sufficiente. Yakup quel giorno e in quelli successivi cercò di offrirmi un panorama della situazione, probabilmente cercando di dare a se stesso delle spiegazioni Mi diceva che probabilmente non erano stati i ragazzi di Tophane. Probabilmente gli assalitori venivano da qualche altro quartiere ben più arroccato in una visione “conservatrice” del mondo. Istanbul è una città sorprendente. Nei pressi di Istiklal i locali gay, le chiassose discoteche, i concerti dal vivo, dall’altra parte del corno d’oro le donne in chador e religiosi silenzi. E’ vero che ormai in tante città europee è possibile osservare questo singolare dualismo. Ma Istanbul era la capitale dell’impero ottomano ed è allo stesso tempo la città dove in misura maggior è possibile osservare il frutto delle riforme di Atatürk. Fantasticando di ucronie, se non ci fosse stato Atatürk probabilmente oggi Istanbul sarebbe una città più simile a Teheran. Questo dualismo dunque si è sviluppato progressivamente dagli anni venti e non è una recente, disorientante realtà come nelle città europee. Anche di questo mi parla Yakup. Lui conduce una vita libera, beve, fuma, cambia donne, crede nel progresso. La libertà non può che espandersi, dice. Io sorrido e scrollo la testa. Mi ritornano in mente una folla di letture e fatti storici, dalla fuga della libertà di Fromm alla nascita del fascismo. Da anni non sono più così sicuro che il processo della libertà sia inarrestabile. Internet d’accordo. Ma i mezzi di comunicazione sono stati sempre un arma a doppio taglio. Non dimentichiamo la radio di Mussolini o la televisione dei giorni nostri. La svastica sul sole e 1984.

In Turchia ci sono due visioni della vita: una moderna, chiamiamola così per semplificare, e una tradizionalista. Questi due modelli di vita spesso entrano in contrasto. Il problema è che uno dei due usa la violenza. Yakup sorride in maniera rassicurante con la sua fiducia nell’uomo. Si è creato un baratro e in certe circostanze sono stati gli intellettuali turchi a creare la spaccatura. Deridere, ridicolizzare i credenti, coloro che vivono in maniera tradizionale è un errore. Lui mi dice che non odia nessuno, neanche coloro che l’hanno picchiato. Crede che un giorno anche quei ragazzi capiranno.

Ripenso a Pamuk e Shafak. Nel libro dedicato a Istanbul Pamuk descrive la donna delle pulizie credente, tradendo incomprensione ma rispetto. Sembra dire che i suoi comportamenti parlano una lingua differente, i suoi sogni sono altri. Al contrario la Shafak della Bastarda di Istanbul nella stessa famiglia colloca la nichilista, la religiosa, la kemalista, la ribelle in una litigiosa ma armonica vita in comune. Sembra suggerire che la concordia tra questi variegati modi di concepire il mondo è un fatto quotidiano. O qualcosa verso cui tendere. Due letterature sintomatiche, segni dei tempi.

Mi ritorna in mente Jesse. Avevo pensato fosse uno dei tanti scoppiati italiani in giro per il mondo senza arte né parte perso in stravaganti esotismi[1]. Anche perché Sara me l’aveva presentato come un artista, nato a Woodstock da genitori italiani, con un nome ebraico pronunciato all’inglese, che voleva riaprire un abbandonato hammam gay per organizzarci dentro un’istallazione d’arte. Mi sembrava sufficiente, nella mia tendenziale attitudine alla facile prosa, per giudicarlo uno sconclusionato. Mai valutazione fu più insulsa, mai esperienza fu più indimenticabile. Jesse si diede da fare. Riuscì a farsi consegnare le chiavi dell’abbandonato hammam. Giorni e giorni di olio di gomito per ripulire il sito tra profilattici abbandonati, sigarette, grasso e tempo raggrumato in sporcizia diffusa. Contattò amici musicisti, pittori, fotografi e chiese aiuto al consolato italiano. Il buon Aldo riuscì a procurargli il vino per l’inaugurazione e il viaggio iniziò. Giunto sul posto mi ritrovai in un contesto internazionale come mai mi era successo ad Istanbul. Turchi, insegnanti, inglesi, olandesi, artisti, francesi, americani, cazzeggiatori, dj, musicisti, italiani, lingue, capelli e occhi differenti. Un giubilo multiculturale. All’interno una lavatrice pendeva dal soffitto, trovata chissà dove, dipinti di studenti dell’accademia, un piccolo bancone e un dj alla console. I presenti ballavano in tutte le lingue. Al piano di sopra, nelle stanzette dei massaggi fotografie di nudo maschile e femminile. In un ripostiglio una spassosa istallazione diffondeva la registrazione di un accoppiamento tra uomini, a ricordo dei vecchi amori che si erano consumati tra quelle pareti. Un carnevale artistico e culturale. La stanza più attraente era quella centrale dell’hammam. Dove un tempo la gente stazionava nella vaporosa umidità, lavandosi, massaggiandosi, versandosi addosso pigramente acqua fredda. Al centro la piattaforma calda di marmo per stendersi. I musicisti si posizionavano proprio nel mezzo o sparpagliati tra gli astanti e la musica si diffondeva nell’aria umidiccia rimbombando nella stanza, resa angusta dalle presenze umane, tra candeline e paramenti occasionali. Il concerto più bello fu quello di un gruppo di musicisti da strada celebrati da Fatih Akın in Crossing the bridge. Gli Alatav suonano musica tradizionale turca e vi può capitare di ascoltarli per strada, se passeggiate per Istiklal. Le suggestioni di quella sera: le voci antiche dei cantanti, complicità di sguardi e dita, silenziosi astanti perduti in passeggiate mentali e musica invece di acqua fredda sul capo, un massaggio cerebrale, un nido di brividi. E su tutto questo Jesse, in mezzo a tutti, nel centro di tutto questo, con il suo sorriso semplice, il suo fiuto da settentrionale e la sua serenità da meridionale.

Ogni sera io e Sara ci ritrovavamo nell’hammam. Ormai non ne potevamo fare a meno. Una sera incontravamo un messicano amico di Alejandro González Iñárritu, a suo dire, magari c’era quel fotografo tedesco oppure con una birra in mano ascoltavamo la musica del dj francese... Attendendo l’ultimo giorno, la chiusura del progetto, il trionfo finale, il grande evento, il concerto più attesso... Appunto. Gli ultimi giorni quando mi recavo presso l’hammam lo scoprivo tristemente chiuso. Chiamavo Sara che mi ripeteva che c’erano stati dei problemi, ma che sicuramente domenica, l’ultimo giorno sarebbe stato aperto. Domenica.

Qualche giorno fa io e Gabriella siamo andati a curiosare nelle ormai tristemente famose gallerie. Dalle fotografie delle dive di Comte alle istallazioni di giovani artisti turchi. Qualcuna poteva essere provocatoria come quella dell’angelo Atatürk caduto dal cielo. Sebbene la scultura potesse essere interpretata anche come un attacco a coloro che hanno nascostamente buttato giù il padre della patria. Quattro minareti e la cupola di una moschea ribaltati e trasformati in tavolino. Il sacro che diventa dozzinale disegno industriale. Soldati oranti che danno le spalle alla Mecca. Qualche provocazione ma nulla di così forte da suscitare quella reazione violenta e soprattutto programmata. Perché? Ma Yakup mi ripete: “non è il contenuto della mostra il nodo. Sono le visioni del mondo, gli stili di vita.” E mi ripete “stili di vita”, “visioni del mondo” come per paura di essere frainteso. Ho ripensato alle sue parole mentre Gabriella scattava le foto per strada tra una galleria e l’altra. Un ragazzo che sgranava il tesbih, il rosario, puntava con sdegno la sua macchina fotografica. Come se fosse una contaminazione del paesaggio. Intorno anziani davanti a un tè, uomini indaffarati nel commercio minuto, solo qualche sparuta donna velata. Un paesaggio mussulmano. Tophane è un quartiere “conservatore” e tra queste strade, tra case inconcluse, lenzuela al vento e bambini che corrono, in mezzo a questa gente dallo sguardo sospettoso le gallerie d’arte. Cihangir, il quartiere luminescente e rumoroso dei turchi moderni scende a valle, si conquista spazi in un quartiere di preghiera. L’oriente e l’occidente turchi che si incontrano stridendo.

“Dagli anni ottanta i movimenti conservatori hanno iniziato a prendere piede. Non ti sto a speigare come e perché. Hanno conquistato forza e sicurezza progressivamente. Adesso si sentono così potenti da poter decidere il destino di tutti. Quando Atatürk pensava alla Turchia immaginava un popolo di persone istruite e libere. Persone, non seguaci. Persone, non sudditi.” Yakup mi fissa con le palpebre spalancate. In questi giorni sta collaborando con altri “pestati” per produrre un video in cui narrare il punto di vista degli assaliti. “Dobbiamo darci da fare. Siamo costretti a diventare artisti per il fatto di essere stati picchiati.” Mi chiedo se anche la vicenda dell’hammam sia un tasselo di questa storia di Istanbul, della Turchia e del mondo odierno. La conservazione e la contaminazione.

Perché l’ultimo tanto atteso appuntamento con l’hammam di Jesse giunse. Quel giorno, domenica, mi sedetti sul marciapiede davanti alla porta di ingresso e mi fumai una sigaretta. Non c’era nessuno, era chiuso, avrei aspettato invano. Che cos’era successo? Dopo poche ore a casa di Sara fummo messi al corrente di tutto. Il vicinato aveva chiamato il padrone dell’hammam e aveva protestato minacciando atti violenti. Le fotografie dei nudi, gente per strada con la birra in mano, quelle assurde cose artistiche: indecente! Istanbul ci aveva sorpresi, eccitati e infine traditi.

L’ultimo giorno a casa di Jesse, prima della sua partenza per la Spagna per l’organizzazione del Rototom Sunsplash[2], davanti all’umiliante partita dell’Italia dei mondiali, parlammo ancora dell’hammam. Per poco. Gli dicevo che doveva pensare a qualcosa del genere in pianta stabile. Ma lui sorrise e disse con la saggezza adatta alla conclusione di un racconto contingente: “La mia idea era semplicemente creare qualcosa di momentaneo, di passaggero. Un seme. Il resto non mi interessa. Va bene così.” E anche per noi va bene così.



[1] Ahimé sospetto di non sfuggire io stesso a questo giudizio da parte dei più giovani che ho incontrato girovagando.

[2] Questa sarebbe un’altra bella storia ma dovete farvela raccontare da Jesse o date una sbirciatina in rete. Il più grande festival raggae d’Europa, nato in Friuli, sfrattato dal suo luogo d’origine dalle autorità italiane, è stato acquistato dagli spagnoli. Un’altro indizio della morte cerebrale dell’Italia.